Ammetto che, all’epoca, le immagini e le notizie della guerra a Sarajevo mi sono scivolate addosso come se fosse qualche cosa di troppo grande e troppo distante dalla vita di una giovane poco più che ventenne. Come se non mi riguardasse più di tanto. Come se dovessi dispiacermi per quella povera gente punto e basta, ricordandomene appena negli anni a venire. Una guerra di “tutti-contro-tutti” che non mi ero mai premurata di capire più di tanto proprio perché così lontana da me.
Nel leggere il libro della bravissima
Margaret Mazzantini ho vissuto – seppur in parte – quella guerra con un’intensità e con una partecipazione tali da non poter restare indifferente e considerare
Venuto al mondo come un semplice romanzo.
Perché non lo è. Non è una storia inventata come tante altre, pur non essendo una storia vera… Non è inventata nelle ambientazioni, nelle circostanze, nelle paure della guerra. Quella, no, inventata proprio non lo è.
Lo è la storia di Gemma e di Pietro, di Diego e di tutti gli altri personaggi. Ma non lo è la guerra.
Questo romanzo è frutto dell'immaginazione. Persone e fatti reali sono trasfigurati dallo sguardo del Narratore.
Così si dice.
Trasfigurati, non inventati perchè - seppur in chiave romanzata - ciò di cui si parla è molto vicino alla realtà.
Credo che anche stavolta sia stato il libro a scegliere me: ho presentato una lista di titoli in biblioteca ed il ragazzo che era davanti al terminale da cui si accede all’elenco dei titoli disponibili ha fatto la scelta per me porgendomi un libro piuttosto spesso (
531 pagine nell’edizione Mondadori Oscar Grandi Bestsellers) e pesante (intendo di peso effettivo, non come lettura perché in quel momento non potevo sapere se si sarebbe trattato di una lettura “pesante” oppure no).
L’autrice tocca molti argomenti, tutti molto intensi e delicati, tutti destinati a lasciare il segno. Nel far parlare
Gemma in prima persona, l’autrice riesce a raccontare un viaggio ben più profondo di quello che Gemma e suo figlio Pietro fanno a Sarajevo, nei luoghi della guerra, nei luoghi in cui l’adolescente è nato “per caso” (così gli dirà sua madre). Un caso che ha il volto della guerra ed il sapore della violenza… ma lui non lo sa. E lei, la madre, ne è consapevole solo in parte.
Il racconto del viaggio è farcito di una serie di flash back che mi hanno portata con forza all’epoca della guerra… Ai mesi precedenti all’assedio di Sarajevo, a quella terra che in fin dei conti non è geograficamente così lontana da me ma che ho sempre considerato tale.
Gemma è la protagonista di un viaggio che porterà a galla il dolore e le atrocità del passato ma anche di un forte messaggio di speranza.
Pietro incarna questa speranza, anche se non lo sa. E’ la prova vivente – lui con le sue contraddizioni adolescenziali, con il suo modo di fare e di atteggiarsi – di come da qualche cosa di profondamente ingiusto e violento possa nascere qualche cosa di buono e promettente, un nuovo futuro.
Gemma porta Pietro con se in un viaggio in quella terra in cui ha perso la vita il padre del ragazzo,
Diego, un fotografo genovese un po’ fuori dalle righe con il quale Gemma ha vissuto un’intensa e particolare storia d’amore. Lo ha sposato in seconde nozze ed ha desiderato ardentemente – con lui – la maternità. Aveva conosciuto Diego in occasione di un viaggio di studi nel corso del quale ebbe come guida un poeta un po’ strampalato che diventerà, poi, un fidatissimo amico: quel Gojco che rappresenta un altro personaggio chiave del romanzo. Era il 1984 e a quell’epoca la guerra era lontana.
Il viaggio di Gemma e Pietro è un viaggio dei tempi moderni, di qualche anno fa, quando quella terra porta ancora i segni della violenza ma fa di tutto per risorgere a nuova vita.
La trama del romanzo è piuttosto difficile da raccontare in poche righe e va gustata per intero, senza anticipazioni di sorta. Quello che mi sento di dire è che l’autrice tocca molti aspetti delicati, importanti, toccanti. Quegli argomenti che hanno lasciato il segno in me.
L’amore. L’amore tra Gemma e Diego ma non solo. L’amore di Gojko per la sua famiglia, per la sua terra… L’amore che permette alle persone di resistere, di reagire, di non abbandonarsi.
Forse questo è l'amore quando raggiunge la sua vetta.
Ebbro come uno scalatore che s'è arrampicato e poi è arrivato, e più su di così non può andare, perchè comincia il cielo.
Così nui guardiamo fuori dal vetro, quel paesaggio rarefatto, il mondo dal quale ci siamo mossi per cominciare la salita, che adesso ci sembra così lontano.
Siamo in alto e soli, sulla vetta che abbiamo raggiunto.
La voglia di maternità. Una maternità che non arriva e che diventa un obiettivo da perseguire ad ogni costo. Con ogni mezzo. Seguendo ogni strada. Una maternità agognata, temuta anche, cercata più volte e più volte fallita.
Su tutti
la guerra: quella bestia nera che distrugge tutto ciò che tocca. Distrugge la città, ammazza le persone, abbatte gli edifici e lascia segni profondi nel cuore e nell’anima di chi sopravvive. La guerra che cambia le sorti di un popolo, che cambia i destini di giovani speranzosi costretti a convivere con il terrore, la paura. La guerra che mette tutti contro tutti senza un perché. Sloveni, Croati, Bosniaci, Serbi, Montenegrini, Macedoni, Albanesi, Musulmani, Cattolici, Ortodossi: tutti contro tutti senza un perché, come automi che rispondono alla necessità di “eseguire” meccanicamente gesti atroci, violenze inaudite soprattutto a discapito di povera gente inerte ed indifesa. Cecchini che si divertono a colpire madri per sentire la disperazione dei bambini rimasti soli, che assassinano figli che assistono genitori paraplegici per godere dell’inerzia e della sofferenza di quei poveretti rimasti soli, attentati in luoghi affollati come le piazze in cui si fa la fila per l’acqua. E poi la violenza sulle donne. Donne stuprate più e più volte, torturate, ridotte ad automi senz’anima. Donne umiliate dalla guerra e ridotte in schiavitù.
Tematiche che non possono lasciare indifferente nemmeno il lettore più distratto.
Una storia che appassiona, che sgancia pugni allo stomaco una pagina dopo l’altra. Pugni ben assestati, sganciati grazie ad una capacità descrittiva molto efficace e realistica. I luoghi vengono descritti minuziosamente, nella loro fierezza, nella loro maestosità ma anche nella loro rovina e disperazione. Scene di violenza che vengono descritte come se fosse l’obiettivo di un fotografo ad averle immortalate. Senza appesantire la penna di dettagli inutili ma semplice resoconto di una realtà che è passata inosservata davanti agli occhi di molti, troppi spettatori, più o meno “illustri”, che hanno lasciato che un massacro di quella entità si compisse.
Qui è sepolta mezza Sarajevo.
Le date di nascita cambiano, quelle di morte si ripetono.
Era come un sacco nero, il destino.
La morte fece un raccolto straordinario, in quei tre anni.
La morte è solitudine e loro furono privati anche di quella privatezza, costretti a crepare a grappoli, come insetti.
Essere derubati della vita sembrava quasi accettabile, alla fine, ma il furto della morte è un'altra storia... finire alla rinfusa, mischiati come panni sporchi, come frutta marcia.
La dignità di uomini e donne che cercano in tutti i modi di attaccarsi alla parvenza di una vita normale. Non ignari della guerra ma consapevoli di avere bisogno di attaccarsi alla vita con le unghie e con i denti per non lasciarsi andare alla disperazione, davanti a figli massacrati, mogli stuprate, case saccheggiate. Per non dare ai lupi la soddisfazione di vederli avere paura.
Velida stamattina può piangere perchè piove così tanto che nessuno si accorgerà delle sue lacrime.
Una donna in fila la spinge, le si fa di lato, la lascia passare.
Poi le cede anche la sua razione di latte, che il vivandiere ha trovato chissà dove, sono mesi che non si vede un po' di latte vero.
M'arrabbio, le dico che è troppo magra per permettersi di essere così generosa.
Ma lei non vuole ridursi come un animale, rifiuta quella lotta tra disperati.
Per me non è stata una lettura facile proprio perché molto efficace e dura. Non è lo stile narrativo che la rende tale ma è il racconto in se, sono le tematiche trattate che hanno reso dura questa lettura. Dura perché scuote la coscienza, perché colpisce nel vivo con la cruda realtà, perché segna l’anima di chi, probabilmente, non è riuscito a rendersi conto del tutto di cosa voglia dire perpetrare tanta violenza. Violenza vera, non inventata. Violenza che si accorda alla perfezione con quella “pulizia etnica” che è stata alla base di quanto accaduto, con l’assurdo obiettivo di sterminare gli avversari… Ma quali avversari? I bambini che giocavano a palla nei cortili? Le donne che stendevano la biancheria al sole? Gli uomini che si davano da fare per portare a casa un misero stipendio per mantenere una famiglia numerosa? Quali avversari? Quale pulizia?
Non si può restare indifferenti e a Margaret Mazzantini va il merito di immergere il lettore in una specie di bolla d’aria in cui respira quegli stessi respiri dei protagonisti e soffre, pur tentando di restare distaccato, di quella stessa pungente sofferenza.
Non è una storia allegra ma carica di speranza. E’ una lettura che va letta con calma. Non la si consuma in poco tempo perché richiede una certa attenzione. Il continuo alternarsi di racconti di ieri e di oggi permette di comporre, pian piano, un puzzle che solo all’ultima, l’ultimissima pagina potrà dirsi composto del tutto. Un puzzle che assume diversi colori: i colori dell’amore, della speranza, della disperazione, della violenza e della morte ma anche dell’amicizia, della condivisione.
Un
grande romanzo, uno stile di scrittura immediato ed efficace. Grazie anche all’uso di termini un tantino inusuali l’autrice è molto, molto efficace nella scrittura e non scade mai nella banalità anche quando l’argomento potrebbe prestarsi (vedi: guerra… per essere stato raccontato più e più volte). Ammetto di essere anche andata a documentarmi durante la lettura per saperne di più. I riferimenti storici sono precisi e reali, quelle stragi di cui parla l’autrice sono stragi vere, immagini reali, disperazione tangibile. E tutto questo, anche l’avermi indotta a sapere di più, a prendere maggiore coscienza di ciò che avevo tenuto a debita distanza da me, mi induce a definire questo romanzo come un capolavoro che lascia il segno. Una lettura che consiglio, per un pugno nello stomaco di cui tutti hanno bisogno… Con la speranza che si possa imparare qualche cosa, sul serio, però!
La speranza appartiene ai figli. Noi adulti abbiamo già sperato e quasi sempre abbiamo perso.