E' del 1853 la prima edizione del libro 12 anni schiavo,
nel quale Solomon Northup, afroamericano, nato libero all’inizio
dell’Ottocento a Saratoga Springs, nello Stato di New York, racconta la sua
storia.
Io, ovviamente, non ho letto quell'edizione ma una più
recente, peraltro letta in e-book.
La sua è una storia di sofferenza, di sottomissione, di
speranza e di forza di volontà. E' una storia di libertà rubata e
dell'impossibilità di riconquistarla se non dopo tanto, troppo tempo di
ingiusta sottomissione. Non che la sottomissione di uno schiavo nato tale sia
giusta, ci mancherebbe! La schiavitù è in ammissibile punto e basta. Ma quando
un uomo perde la sua libertà per via del colore della sua pelle, quando non può
dimostrare di essere un uomo nato libero e deve sottomettersi ad un destino
fatto di violenza e di soprusi oltre che di fatica e di lavoro, allora la
storia prende una piega particolare. Una ingiustizia in un’altra ingiustizia.
Una storia che è stata raccontata a gran voce denunciando un'esperienza
drammatica davanti alla quale non si può restare indifferenti.
Noi siamo lontani da quell'epoca per cui non è pensabile
assistere alla compravendita di persone, alla loro riduzione in schiavitù in
nome di una legge che, comunque, legittimava tale pratica.
A quei tempi, però, esisteva una categoria di persone che
era equiparata agli oggetti: senza diritti, mere proprietà altrui, nate per
lavorare ed ubbidire, tenute in condizioni a dir poco pessime, continuamente
sottoposte a violenze di ogni genere a fronte, spesso, di un nonnulla... Ecco,
questa è la situazione che viene raccontata, vista dagli occhi di chi si trova
a perdere, improvvisamente, la propria libertà.
La scrittura è piuttosto semplice e lineare e più che lo
stile, in questo caso, ciò che tocca è il contenuto. In alcuni punti l'autore
si dilunga in descrizioni che ritiene necessarie ai fini di una migliore
comprensione della situazione: parla della raccolta del cotone, della vita nei
campi e tutto il resto. In alcuni tratti ho avuto anche l'impressione che il
racconto fosse ripetitivo, lo ammetto.
In particolare, mi è rimasto in mente un passaggio in cui
l'autore, il protagonista della storia, parla dei padroni. Sostiene che la loro
crudeltà non è legata, tanto, al loro essere quanto al sistema in cui vivono.
Se lo schiavista è crudele la colpa non è sua, quanto del sistema in cui vive. Egli non può che subire l'influenza delle abitudini e delle regole sociali che lo circondano. Se sin dall'infanzia gli viene insegnato da tutto ciò che vede o sente che la schiena dello schiavo è fatta per ricevere bastonate, non potrà cambiare opinione negli anni della maturità.
Sostiene anche, infatti, che ci sono dei padroni umani,
attenti ai loro schiavi dal punto di vista umano.
Possono esserci padroni più umani, come senza dubbio ce ne sono di disumani; possono esserci schiavi ben vestiti, ben nutriti e felici, come sicuramente ci sono quelli malvestiti, affamati e affranti; ciò nondimeno, l'istituzione che tollera i torti e le miserie cui ho assistito è crudele, ingiusta e barbarica.
Il protagonista venne rapito nella città di Washington e
venduto come schiavo cambiando poi, nel tempo, diversi padroni prima di
arrivare alla libertà. Libertà arrivata grazie ad un uomo buono, un bianco
diverso dagli altri, che si prodigò per lui. Si arrivò ad un processo che viene
riportato nel libro e che rendere ancor più l'idea di cosa accadeva all'epoca.
Se si pensa che non è una storia romanzata ma una storia vera… Bhè, c'è da
riflettere un bel po'.
Si tratta di un libro utile per comprendere cosa è stata la
schiavitù, efficace perché non è romanzato da chi può cercare di immaginare
quelle situazioni ma da chi, suo malgrado, le ha vissute.
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