Una continua partita di tennis.
È ciò che mi è rimasto nella mente dopo aver chiuso l’ultima pagina del libro Il giardino dei Finzi-Contini, di Giorgio Bassani. Una partita di tennis non solo materiale, come quelle che sistematicamente venivano disputate nel campo da tennis della famiglia protagonista del romanzo da un certo punto in avanti, ma anche in senso figurato, come ciò che accade nella vita dei protagonisti. Improvvisamente si trovano sballottati a destra e a manca, proprio come una pallina di tennis, a livello fisico ma anche psicologico, da eventi che hanno sempre cercato di tenere lontani ma che inesorabilmente si abbattono – volenti o nolenti – anche su di loro.
Seppur celata sotto un’apparente disinteresse generale, come se a loro
non potesse arrivare, la guerra serpeggia tra le pagine con tutto ciò che, in
quell’epoca, ha comportato. Una delle pagine più dolorose, quella delle leggi razziali, pur facendo irruzione nella storia sembra comunque restare ai margini.
Il romanzo si apre con un’ io narrante – di cui non sapremo mai il nome - che parla sempre in prima persona, e che avvia fin da subito, un viaggio nei ricordi. Lo fa chiamando alla memoria i tempi passati davanti alla tomba della famiglia Finzi-Contini, famiglia ebraica che all’epoca in cui si apre il romanzo riposta nel cimitero (ebraico) di Ferrara. Si parte dunque da un dato di fatto: la famiglia è interamente scomparsa – padre, madre, nonna e due figli suoi coetanei - prima del protagonista che richiama alla mente i tanti momenti vissuti in quel giardino, tra quelle mura negli anni della gioventù. Nel prologo sappiamo già che fine fanno i Finzi-Contini.
Nella Ferrara a cavallo tra gli anni ’20 e ’30 la comunità ebraica è particolarmente vivace. Quella stessa di cui fanno parte sia la famiglia del narratore che quella dei Finzi-Contini. I loro rapporti iniziano a stringersi proprio in occasioni legate alla vita in sinagoga. I Finzi-Contini sono isolati – per loro scelta – dal resto del mondo, quasi come se non volessero dare troppa confidenza al “volgo”. Quella superiorità, quell’atteggiamento aristocratico veleggerà tra le righe per gran parte del romanzo con la sensazione del narratori di essere un privilegiato quando inizia a prendere confidanza con la vulcanica Micòl fino a diventare amico intimo di famiglia.
Nel momento in cui sull’Italia e sulle comunità ebraiche si abbattono le leggi razziale fasciste, a casa Finzi-Contini si crea una sorta di ambiente protetto, alternativo a quello ufficiale e che si concretizza in momenti di puro svago nel campo da tennis privato di famiglia a cui anche l’io narrante è invitato. Alberto e Micòl, i due fratelli Finzi-Contini, con fare aristocratico, organizzano una sorta di circolo alternativo (e rigorosamente privato) a quello ufficiale dove gli iscritti ebrei iniziano ad essere esclusi. Da questo momento la frequentazione del narratore di casa Finzi-Contini diventa assidua, quasi ossessiva: in quel giardino, tra quelle mura si ha l’impressione che la storia non possa arrivare, che le tragiche vicende che stanno interessando gli ebri non siano una reale minaccia.
Alle vicende personali dei protagonisti – in testa la cotta quasi ossessiva del protagonista per una sfuggente Micòl (probabilmente l’unica ad aver realmente immaginato cosa avrebbe potuto accadere quando dichiara di non essere interessata al futuro ma solo ai ricordi” – iniziano a sommarsi con sempre maggiore intensità le vicende storiche dell’epoca: l’ingresso dell’Italia in guerra è imminente e quel giardino non è più quell’oasi di pace che per tanto tempo si è voluto far credere che fosse. Tanti i ragionamenti di carattere politico che vengono fatti tra le pagine ma sempre con la sensazione che sia tutto ancora lontano…
L’epilogo non è dei più felici per la famiglia Finzi-Contini (e le immagini evocate in apertura del romanzo ne sono la prova).
Il racconto – essendo retrospettivo e comunque legato a figure che non ci sono più, e lo si sa già in apertura del romanzo – non è ricco di dialoghi. È un lungo monologo proprio come le memorie di chi è sopravvissuto agli altri, di fatto, possono essere. I ricordi irrompono con intensità in quella sorta di rassegnazione che l’autore esprime già in partenza, visto come sono andati i fatti.
Evocare i ricordi, però, è una tecnica che permette all’io narrante di isolarli dalle influenze storiche dell’epoca: la guerra e tutto ciò che ne consegue restano in sottofondo, quasi come se davvero le loro ombre non dovessero allungarsi su quella famiglia. L’epilogo, però, racconta qualche cosa di diverso… e non avrebbe potuto essere altrimenti, a ben pensare.
Devo ammettere di non essere riuscita a trovare un gran feeling con i personaggi. So bene quale sia la fama di questo romanzo, peraltro arrivato a casa mia su suggerimento dell’insegnante di italiano a mia figlia in quarta liceo come lettura mensile, ma pagina dopo pagina ho cercato di capire quale fosse l’obiettivo ultimo dell’autore. Dare ai ricordi quella dimensione eterea, lontani dalle minacce della storia? O riconoscere proprio che la storia, a dispetto dei tentativi di tenerla fuori dalla porta di casa, allunga comunque le sue grinfie su tutto e su tutti, soprattutto in alcuni periodi particolarmente difficili?
Lo stesso epilogo, nel quale si concretizza, per i Finzi-Contini, un destino di gran lunga diverso a quanto sperato, le emozioni mi sono sfuggite di mano, come se il frettoloso finale non valesse nemmeno la pena di essere letto per lasciare che i ricordi restassero i soli meritevoli di attenzione.
***Il giardino dei Finzi-Contini
Giorgio Bassani
Einaudi editore
pag. 293
10.50 euro copertina flessibile
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